Mi dissero che ci sarebbe voluto un anno.
365 lunghi giorni per ritrovare la mia interezza, per dare di nuovo un ritmo e un senso alle cose.

La mattina seguente, mentre l’odore del caffè saliva lento dalla moka invadendo ogni angolo della cucina, fuori l’aria sapeva quasi d’estate. E lì, tra il silenzio e il vapore, sentii qualcosa muoversi. Mi sentivo bene. Mi sentivo già a buon punto il giorno dopo. Ne mancavano solo 364.

No, non era guarigione. Non ancora.
Era un cambiavento.

Non lo vedi quando arriva, ma lo senti. Ne senti il fruscio leggero che diviene istante in cui il respiro acquisisce profondità, la paura si accomoda in fondo alla stanza e tutto inizia a mutare, cromaticamente. Il cambiavento non è rumore, è direzione. Non è certezza né arrivo, ma semplice passo.

Uno dopo l’altro.

Così mi accorsi che qualcosa stava mutando. Ciò che apparentemente poteva sembrare un uragano era solo piccolo spostamento d’aria che faceva oscillare i pensieri stanchi come tende leggere e le due piume erano sufficienti per cavalcarlo. Un’energia nuova cominciò a farsi spazio, lieve ma decisa. Fu lei a permettere la trasformazione, o fu la trasformazione a chiamarla a sé? Non importava più rispondere. Era chiaro che vivevano nella stessa corrente, nella stessa ora. Contemporanee. Una che nasceva dall’altra, e viceversa.

Cominciai a muovermi con lei. Non sapevo ancora dove mi avrebbe portato, ma avevo smesso di oppormi. Non c’era più lotta. Solo ascolto.

E in quel silenzio attento, iniziò la parte più vera del viaggio.
L’incontro con me stesso.