Entrò danzando, lieve, con un passo quasi infantile.
Camminava con un fare gentile, quasi senza toccare terra, fluttuando come in un sogno sospeso.
Ogni suo gesto aveva la fragilità di un sogno appena sveglio, impalpabile e sfuggente tra il sonno e la veglia. Era morbida come un respiro trattenuto e poi lasciato andare fino all’ultima goccia d’aria.
L’aria intorno a lei sembrava cambiare densità, vibrando in un silenzio luminoso. Portava negli occhi i riflessi di mattine chiare, di risate improvvise, di abbracci brevi ma veri. Gesti che non si pianificano, ma che accadono e basta, senza bisogno di cercare o dare spiegazioni. Come una finestra che si apre improvvisamente al vento.
«Mi cerchi sempre quando non mi vuoi trovare,» disse ridendo.
Il suono della sua voce era una carezza che sapeva di ironia e perdono.
«Mi reclami come si reclama l’estate in pieno inverno, con quella nostalgia ostinata che sa già di resa. Ma io non appartengo ai tuoi giorni ordinati, alle ore che misuri per sentirti al sicuro. Io vivo solo nei tuoi istanti distratti, quando ti dimentichi di controllare se mi meriti. È lì che respiro, nel piccolo spazio tra un pensiero e l’altro, quando il tempo ti scivola dalle mani e tu ti lasci essere.»
Si chinò e mi sfiorò il viso, poi poggiò la sua fronte sulla mia.
Un calore lieve mi attraversò le tempie.
Chiusi gli occhi.
Un ricordo si riaccese da solo, senza motivo. Sentii dissolversi il peso dei giorni, la fatica delle attese, e per un istante credetti che tutto potesse davvero ricominciare.
Quando li riaprii, mi accorsi che erano trascorse sessanta lune, e la luce aveva mutato tono, divenendo color rame, profonda, inquieta. Per un istante lei rimase immobile, assorta, con lo sguardo rivolto altrove, come se vedesse qualcosa che a me restava invisibile.
Poi sentii il battito del mio cuore mescolarsi al suo respiro.
Il mio sorriso trovò il suo.
Aprì le braccia. Mi accolse.
E gioia fu.

