La sua luce era gentile.
Diffusa come un chiarore che non abbaglia ma invita. Il suo sorriso raccontava di lei più di qualunque parola, e il modo in cui muoveva l’aria attorno a sé pareva orchestrare una quieta armonia. Sotto quell’aura, fatti della stessa sostanza luminosa, due satelliti: i suoi figli, che le ruotavano intorno con la naturalezza dei pianeti fedeli al proprio sole.
Stava seduta con una compostezza quasi adolescenziale, le gambe incrociate a incorniciare un libro. Non potevo distinguere il titolo, né immaginare con certezza di cosa trattasse, ma era chiaro che le chiedesse spazio. Le pagine, nel tempo che rimasi lì, si voltarono poche volte. Anzi, il più delle volte era come se il tempo si fermasse sulla stessa pagina, come se cercasse di decifrare un enigma o di trattenere qualcosa che non voleva scivolasse via.
Poi alzava il naso e lasciava andare lo sguardo in avanti, verso la linea immobile dell’orizzonte. Un gesto sospeso, come chi interroga la vita. A chiedersi, forse, tutto; forse nulla.
Intorno a lei la piscina ribolliva di voci, schizzi, risate. Eppure pareva restarne protetta, come se quell’angolo d’ombrellone fosse una piccola bolla trasparente, intima, impermeabile al resto del mondo.
E rimasi ancora qualche secondo ad ascoltare il suo silenzio.
Immobile.
Mi chiesi se avrei mai avuto l’audacia, o la sfrontatezza, di mostrarle ciò che avevo scritto. E, a ben vedere, non saprei neppure inventarmi una scusa. Forse non ne serve una, né un motivo valido. Forse basterebbe lasciar accadere.
Chissà… queste parole diventeranno parte di un altro mio raccontare, o si dissolveranno, leggere, nella quieta superficie della piscina, quando l’acqua si placa e tutti vanno via.
Ma sentii di scriverne, come per ricordare quanta bellezza ci sia ancora da scoprire, o da riscoprire, intorno a noi.
E poi, il giorno seguente, …