Ci sarà una volta, in un paese sperduto nel nulla, un castello grigio come il cielo d’inverno, dove una principessa, il cui nome tutti ricordavano proprio perché non ne aveva uno. Camminava scalza, per non far rumore nei pensieri degli altri.
Non cercava draghi da domare, né principi azzurri da conquistare o da respingere. Non si attendeva un guizzo di vitalità per organizzare un mega party. Restava lì, a collezionare silenzi, e li metteva sotto vetro come farfalle, o come aria del mare. Tra le mani, un unico pezzo di puzzle. Mancavano gli altri 1499.
Nel cuore del castello, tra velluti svellutati, arazzi impolverati e specchi che riflettevano più crepe che volti, lei custodiva un oggetto singolare: una mela marcia, rinsecchita, scura, dal profumo dolciastro e velenoso. Era l’unico frutto che non aveva voluto buttare via. “È la mia parte vera,” diceva. “Tutta la bellezza marcisce, prima o poi.”
Giorno dopo giorno, il popolo la osservava con lo stesso timore riservato a ciò che non si può raccontare. “Non è gentile,” dicevano. “Non è bella.” Anzi, ne era l’esatto opposto: bruta, brutta e barbuta, con lo sguardo sempre altrove. Ma nessuno osava aggiungere: “Eppure somiglia a noi, nel fondo più fondo.”
Lei intanto parlava alla mela, come si parla a un ricordo che non sa morire. “Tu sì che non pretendi niente,” le sussurrava. “Neppure un finale. Eppure resti qui, senza che il tempo vada oltre.”
E così, mentre le altre favole correvano a lieto fine, la sua restava lì, impigliata a metà.
Con pagine che non volevano chiudersi.
Con sogni che sapevano di terra bagnata.
Con speranze aggrovigliate come rovi.
E continueranno a vivere infelici e scontenti.
Ma almeno sinceri.
E questa, si disse, era già una magia.
Sarebbe stata, pur sempre, una vita da favola.