Quei segni, all’apparenza indecifrabili, divennero l’unica chiave possibile per conoscerla.
Non capivo davvero cosa dicessero. Riuscivo a distinguere solo alcune lettere, tentavo goffamente di formare parole – probabilmente prive di senso.
Eppure, le chiesi: “Anche tu conosci il russo?”
Fu allora che incrociai i suoi occhi, solitamente nascosti dietro gli occhiali che le scivolavano sul naso. “Sì,” rispose con un sorriso lieve, “ma non così bene come sembra”.
Fiuuu.
Mi salvai. Mi salvai dall’imbarazzo inevitabile che una sola domanda in più avrebbe potuto scatenare. E trovai posto sul gradino delle scale, accanto a lei.
L’estate dei campi estivi, quel giorno, cambiò sapore.
O forse… sapere. Perché il sapere adolescenziale è semplice, quasi elementare, fino a quando il sentire non prende una piega diversa – inaspettata – e dà vita a un origami di emozioni che, fino ad allora, avevo solo sfiorato.
Quel foglio quadrato, fino a poco prima dedicato al gioco e alla spensieratezza, cominciò a raccontare altre storie, a disegnare nuovi spazi. I pensieri si intrecciavano, si incastravano con mani inesperte, lasciando qua e là gli errori di un cuore che ancora non sapeva bene come battersi. Gli amori, a quell’età, crescono come fiori sotto un time-lapse: troppo in fretta, in un tempo che non è tempo. E così, a poco a poco, il poco diventava tutto. Come in una grammatica nascosta, in cui il senso non sta nelle singole parti, ma nel loro insieme.
Mani che si sfiorano. Sguardi che si cercano. Biglietti scritti su pezzi strappati dal blocco dei disegni, lì dove disegnavo con tracce indelebili la mia vita. La mia prima esperienza d’innamoramento. O forse… sarebbe più onesto chiamarla incredibile infatuazione.
Piega dopo piega, seppur storte, diedero forma a un cuore.
Un cuore che desiderava raggiungerla.
Ma un cuore… può mai volare?
Ancora qualche piega.
Ne feci una farfalla.