Attesi di attendere.
Che fosse il mio turno, che fosse il momento giusto, che fosse l’attimo in cui tutto torna a scorrere nel ciclo del tempo.
Non era solo una questione di pazienza, ma di addestramento interiore. Sapevo che nello spazio tra l’inizio e la fine vi era un tempo sospeso. Un limbo.
Un tempo che sfuggiva alla regola del moto delle lancette. Non poteva essere compreso attraverso la misura quantistica, ma poteva essere attraversato con coscienza. Lì non accade nulla apparentemente, eppure tutto si prepara. Come la radice che cresce nel buio della terra prima del germoglio.
In quell’intervallo imparai che attendere non è rinunciare, ma accogliere. Che l’attesa, quando consapevole, è un atto di libertà: un modo di sottrarsi alla tirannia dell’istinto e dell’immediatezza. Il presente non era più una prigione, né il futuro una meta. Diventavano entrambi volti di un’unica tensione che racconta la disponibilità ad esserci, senza garanzie. L’andare e il venire vissuti con la quietezza del fiore e del frutto.
Mi fu chiaro che c’è un’attesa che consuma, e un’attesa che trasforma. La prima è cieca, piena di speranze accese come torce che si spengono nel vento. La seconda è nuda, fatta di ascolto, di silenzi, di piccole intuizioni che non pretendono, ma rivelano.
E così accesi la pipa e attesi, come un marinaio che conosce il mare.
Non per ottenere, ma per comprendere.
Non per riempire un vuoto, ma per abitarlo.