La suoneria indicò la fine del ciclo dell’asciugatrice.
Un suono breve, un motivetto familiare, quasi insignificante, eppure carico di intima conclusione. Mi alzo e, mentre le luci dell’oblò si spengono, raccolgo un pensiero, come si raccoglie un panno appena caldo. Lo piego, una volta, poi ancora, cercando di dare un ordine a ciò che non sempre ha forma. La stoffa del pensiero si piega con una certa resistenza, come se non volesse essere costretta, come se un lembo volesse rimanere fuori, visibile, sfuggente. Con le mani lo stiro appena, come si fa con le “mappine” della cucina prima di riporle nel cassetto.
Gesti semplici, quotidiani, eppure colmi di attenzione.
Non ripongo quel pensiero, lo lascio sul tavolo, appena piegato. Deve respirare ancora un po’, evaporare le ultime particelle di umidità. Voglio che conservi il profumo delle gocce di lavanda, quella nota gentile che ricorda la cura. Mi seggo. Accendo una sigaretta. Il fumo si avvolge in spirali lente, come il tempo che scorre in cerchi concentrici, indistinguibili.
Guardo la lineadipensiero del tempo, ormai piegatesi dopo non so quanti lavaggi.
Anche il pensiero, come la stoffa, non è più liscio.
La forma non è regolare, il tessuto ha preso le pieghe della vita. I bordi non coincidono più, sfilacciati, asimmetrici, eppure ancora integri nella loro funzione. Quanta verità c’è in un asciugamano usato, in una mente che ha attraversato le stagioni. Ciò che sembrava perfetto all’inizio ha perso la sua geometria, ma non la sua utilità. Anzi, forse proprio attraverso le pieghe, le macchie leggere, le trame allentate, il pensiero diventa più autentico, più capace di accogliere.
E in quel momento, tra il profumo di lavanda e l’eco del ciclo concluso, comprendo.
Ciò che resta non è l’ordine, ma la cura.

