Improvvisamente, la luce si affievolì.
Il cielo si coprì sempre di più, fino a diventare quasi buio, sebbene il sole non fosse ancora tramontato. Iniziò a piovigginare. Una pioggia sottile che, in breve, divenne torrenziale.
Quelle che prima erano minuscole gocce, simili ad aghi che piombavano dal cielo, iniziarono ad assemblarsi in forme uniche, come centinaia di sé stesse che si fondevano prima di toccare il suolo.
Il suono mutò. Da fruscio a ritmo.
Le foglie ondeggiavano non per il vento, ma per i colpi subiti. La loro danza era una reazione, non una scelta. L’elasticità del gambo e la superficie solida ammortizzavano la violenza come un muscolo teso al limite. Le gocce, cadendo fitte sul rifugio di foglie, producevano un suono familiare. Quello del pane carasau quando si spezza tra le mani. Scrosciante. Battente. Secco. Come un piccolo fragore di crepe che si moltiplicano nel silenzio.
E come il pane si spezza, così anche l’animo, a volte, si frantuma sotto il peso di ciò che cade dall’alto non sempre visibile, spesso improvviso. Ogni goccia, una parola non detta, un errore, un rimorso. Ogni colpo sulle foglie, una scelta sbagliata che rimbomba nel tempo.
La pioggia era la vita quando si fa densa, quando non ti lascia spazio per respirare tra un pensiero e l’altro. Ma anche nel temporale più fitto, qualcosa resta. Il rifugio. Fragile forse, fatto di foglie e silenzi, ma abbastanza solido da ricordarti che sei ancora lì, che stai ancora resistendo.
E anche se ogni goccia sembra fatta per spezzarti, scopri che dentro di te si forma una musica, un ritmo nuovo, primitivo, che accompagna il tuo respiro e ti tiene saldo.
La vita, come la pioggia, non chiede permesso. Ma insegna.
A restare. A ripararsi.
A rinascere bagnati, sì, ma interi.
È giunta l’ora di un nuovo salto.