Librarsi nel silenzio rotto dal vento.
È così che, quella mattina, restando fermo sulla soglia dell’ultima duna che portava al mare, pensai a quanti suoni, quante parole, quanti racconti avevo ascoltato nei giorni precedenti. Tanti, forse troppi. Eppure non riuscivo a contenerli, a limitarne lo spazio, perché ognuno era dono d’ascolto.
Il mare si distendeva come un’infinita pianura d’acqua. Avrei voluto distendermi anch’io, come lui, ma la mia mente non riusciva. Era tersa, anzi, tesa come il filo di un aquilone colmo di vento.
Dentro di me troppe voci si sovrapponevano, ingarbugliate. Rallentavano la corsa verso l’altro, stringevano la circolazione del pensiero. Ricordi, frasi non dette, illusioni e allusioni si confondevano. Claudicante era il mio comprendere i segni del tempo, disegnati dal vento sulla sabbia.
Il suo suono si faceva sibilo tra le canne che ondeggiavano a ritmo con le onde. Saliva fino alla punta sottile e frondosa, e lì si trasformava in fruscio: un bastone della pioggia rovesciato dal cielo. Il silenzio attorno era finto. Un silenzio abitato. Ma io cercavo un silenzio vero, quello in cui poter udire soltanto i rumori della casa vissuta dall’interno.
Mi fermai.
Fu allora che sentii il bisogno di lasciar andare. Non fuggire, ma slegare. Tagliare quel filo di voce interiore, come si taglia un aquilone per vederlo danzare libero. Non era una fuga. Era un abbandono dolce. Un affidarsi.
Le mani si distesero, allungando le dita, inarcando i palmi. La circolazione riprese il suo percorso. Le braccia si aprirono lentamente, si posizionarono perpendicolari al busto, parallele all’orizzonte. Dentro di me si creò spazio. Non più costrizione, ma apertura. Il futuro non era più una meta da raggiungere, ma un luogo dove perdersi. Non da soli, ma interi.
Mi affidai al soffio non per cambiarmi, ma per liberarmi.
Era ora di liberarsi dai silenzi, frammentandoli in vento.