C’era della magia nel guardar fuori dal finestrino.
A quell’età, o meglio dire a quell’altezza, la visione del mondo in auto era piuttosto limitata. Senza seggiolino che potesse innalzare il punto di vista, il campo visivo si ristringeva agli oggetti alti o a quelli vicini. Seduto con le ginocchia raccolte sul sedile dell’auto, i miei grandi occhiali di plastica marrone erano un binocolo rivolto verso il mondo circostante. Nell’additarmi quattrocchi io rispondevo “io vedrò il mondo meglio di voi con quattro occhi”. Fosse vero o meno, certo era il mio perscrutare il mondo con famelica curiosità.
Tutto sembrava enorme ed estremamente inafferrabile. Vedevo gli alberi del viale correre indietro, le luci dei lampioni come stelle cadenti e i palazzi cambiare forma mentre l’auto sfrecciava tra le vie.
In inverno le gocce di pioggia erano piccole creature danzanti in attesa di unirsi. Il loro fondersi in una goccia più grande ricordava l’abbraccio di mio padre. In quello spazio ero unito e un tutt’uno con lui. Senza spazio di separazione. Qualcosa di più grande.
E quando il tempo era prossimo all’estate tutto diventava più chiaro e limpido semplicemente girando con forza quella manopola cigolante che permetteva di abbattere un confine tra me e l’esterno abbassando il vetro. Permetteva alla mia mano di volare come un’aeroplano solcando i venti e modificando la portanza inclinandola verso l’alto o verso il basso. Cercando la perfetta aerodinamicità dei pensieri.
Nonostante il fugace vedere, riuscivo a fissare nella mia mente punti di riferimento come quel palazzo a strisce bianche e nere o le palme ondeggianti. Osservavo con minuziosa attenzione tutt’intorno a me. Un mondo fatto di sogni, colori e piccoli dettagli che solo i miei quattro occhi potevano davvero vedere. Un mondo che attraversavo come tuffandomi dalla finestra.
«Siamo arrivati.» La voce di mio padre mi destò.
C’è ancora della magia nel guardar fuori dal finestrino.
Ci vediamo al prossimo sogno.