Era una mattina fredda.
Erano i giorni della merla.
Scrissi sul vetro appannato dal vapore del caffè poggiato sul davanzale. Guardando fuori dalla finestra il lento risveglio della città, frammentato dalle gocce di brina che si scioglievano, decisi che forse era giunto il momento per quel regalo. Scelsi con cura le parole impacchettandole in un messaggio semplice. Lo guardai per ultimarlo addobbandolo di sentire profondo e legandolo con un nastro emotivo. Mi chiesi se il calore venisse dall’interno o dalla mano poggiata sulla calda tazza.
“Premetti invio”. “Attesi”. “Doppia spunta blu”. “Tutto immobile”.
Più volte durante il giorno controllai il telefono in attesa potesse materializzarsi una risposta. In attesa che che quel regalo potesse non essere vanificato. Che non svanisse nel nulla.
Mentre il primo sole colorava la città sciogliendo la brina, si schiarirono i pensieri tra mille domande su quanto fosse giusto o meno aver inviato quel messaggio. Forse sbagliai nel credere che le parole avessero un peso oggettivo, che avessero lo stesso valore per tutti o che ci fosse un valore primordiale o universale. Forse alcuni doni arrivano troppo presto, o troppo tardi. O forse, semplicemente, non sono destinati a chi li riceve e quindi risultare incomprensibili o non percepirne il senso. O forse semplicemente era giusto il mittente.
Arrivò sera. Scesi per strada per la consueta passeggiata. Osservando i riflessi dei lampioni sulle balate lisce bagnate dalla pioggia ripensai a ciò che scrissi sul vetro. E capì che il valore ciò che doniamo non è mai solo in ciò che riceviamo, ma nel coraggio di offrirlo. Lo sguardo sensibile ha il potere trasformativo per cambiare l’assenza in essenza.
Scrissi “dono” sul vetro appannato dal vapore del caffè poggiato sul davanzale.
Perché ognuno lo è.
Perché noi stessi lo siamo.