Percorrevo la stessa strada ogni giorno, alla stessa ora. Una via poco trafficata, tanto da sapere esattamente in quale tratto mi sarei trovato in quel determinato minuto. Ero certo che se fossi partito subito avrei evitato quell’interminabile passaggio a livello.
E se avessi atteso? Come sarebbe cambiato il mondo intorno a me se fossi partito più tardi? Posticipai la mia partenza concedendomi la sigaretta dopo il lavoro senza fretta. Non in auto, ma poggiato sull’auto.
18.10. Parto. Tutt’intorno sembrava immutato. Tranne l’incontro con il treno delle 19.07.
La campanella dal suono continuo e incessante annunciava che la sbarra stava per chiudersi, annunciava un ricordo d’infanzia, di quando si percorrevano le strade provinciali per raggiungere il mare. Mi fermai a guardare e ad attendere che il treno passasse con il suo suono metallico delle ruote sui binari.
La barra usurata dal tempo. Il tempo usurato dalla fretta. Intorno al passaggio a livello siepi di bella di notte stavano per schiudersi sotto la luce ancora fioca della luna. Il rosso semaforico di un rosso carminio ancora accecante. La casa cantoniera ormai abbandonata raccontava di tempi ormai lontani. Odori di metallo e nafta si combinavano con l’aria fresca della sera. Da lì a poco sarei stato teatro per coloro che erano su quel treno con lo sguardo rivolto fuori dal finestrino. Un tempo infinitamente piccolo. Statico e contemporaneamente dinamico.
E rimasi in attesa di comprendere l’attesa.
Tutto intorno assunse un sapore e un sapere diverso. L’attesa divenne un riflesso della vita: un invito a essere presente, a vivere intensamente il momento, anche quando potrebbe sembrare vuoto. Il valore non risiedeva solo nel raggiungimento di un obiettivo o di un luogo, ma anche nella profondità del viaggio stesso. Attraverso l’attesa riscoprii il senso di meraviglia di quel “tutto torna”.
Il treno passò. La sbarra era già su da qualche minuto e io ero ancora fermo.
In quella inattesa attesa.