Nonostante vivessimo in città, da piccolo mio padre mi ha trasmesso una grande passione per il giardinaggio. Amava le piante. Forse fin troppo. Quando desideravo sedermi in quel piccolo terrazzo, non potevo: le piante occupavano tutto lo spazio.
I pomeriggi, al calar del sole di Palermo, iniziava il suo rito. Toglieva le erbacce, potava, sistemava la terra, le innaffiava, puliva le foglie impolverate dallo smog.
Ogni giorno. Ogni giorno curava le sue piante come fosse un infermiere dal cuore verde.
Quando si allontanava da casa per qualche giorno, chiedeva a me di svolgere quel compito, di sostituirlo. E io mi limitavo a fare lo stretto indispensabile, innaffiando sbrigativamente per tornare ai miei impegni, nonostante riecheggiasse il suo dirmi “stacci accura”.
Sapevo che al suo ritorno avrebbe fatto di meglio.
Un giorno mio padre partii per un lungo inaspettato viaggio. E sapevo che da quale giorno avrei dovuto portare avanti io quell’impegno, con la stessa dedizione. Tutto sembrava complesso, faticoso e a volte anche inutile…
«Sono solo piante» ripetevo a me stesso. Non sono mie. Non mi appartengono. Io sono qui semplicemente per svolgere e assolvere il mio compito. Le erbacce iniziarono a deturpare la bellezza di quelle piante. I fiori secchi caduti sporcavano il terreno.
Col tempo capii che ciò che avrei dovuto fare non era un mero compito eseguito meccanicamente.
Non bastava prendersene cura, dovevo metterci un’amorevole cura.